"Regalare una fetta di torta"
Diamo voce al Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2017 con alcune testimonianze della nostra Comunità diocesana che, quotidianamente, vivono la dinamica del Dono attraverso l'incontro che mette al centro la Parola di Dio e la Persona.
Giorgia e Ilaria. Mora l’una, bionda l’altra. Due “amiche per la pelle”. Compagne di viaggio nella scelta – certo sofferta - di lasciare il proprio paese nativo (una è ligure, l’altra pugliese) e trasferirsi a Parma per motivi di studio.
Cosa vi colpisce di piu’ del Messaggio del Papa sulla Quaresima?
Giorgia: “Ci sono tanti aspetti che mi hanno colpita, ben sintetizzati nella frase “la Parola è Dono, l’altro è dono.” E il mio pensiero va innanzitutto alla mia famiglia in cui ci vogliamo molto bene, nel rispetto e nella reciprocità. Poi penso al grande dono di persone “speciali” che non conoscevo. La parabola di cui racconta il Papa infatti, mi ha riportata indietro nel tempo e mi ha fatto ricordare un’esperienza “bella”: prima di venire a Parma, per frequentare la facoltà di Scienze della Formazione, ho fatto scoutismo per dodici anni. Nel cammino degli scout c’è una tappa in cui è chiesto di fare un’esperienza di Servizio, aprendo il cuore e “regalando una fetta della propria torta agli altri”. Per me non è stata una scelta facile…alla fine mi sono messa in gioco con le persone diversamente abili di cui a volte si parla davvero troppo poco, quasi fosse un tabù. Una conoscenza del tutto estranea anche a me stessa per cui non sapevo cosa aspettarmi e, all’inizio, mi faceva un po’ paura…come se fossi stata io la persona “ricca” di cui narra la parabola nel Messaggio del Papa: non riuscivo a capire fino in fondo cosa queste persone potessero dare agli altri. Però man mano che entravo in contatto e prendevo confidenza mi sono dovuta ricredere. Alla fine del tratto di strada percorso insieme era più quello che loro avevano insegnato a me che non io a loro. Mi sono resa conto che, in molte cose, la vera diversamente abile ero io! Ecco, ripensando a questa esperienza, alla luce delle parole del Papa, è come se mi fossi sentita dire ancora una volta: “apri il tuo cuore, Dio ci ha messi nel mondo per poterci dare una mano gli uni con gli altri, al di là di quello che ciascuno può dare e/o ricevere e liberi dalle zavorre di stereotipi e pregiudizi…perché in ognuno di noi è “svelata” una Storia e un Volto.”
Ilaria: “La parabola scelta dal Papa mi ha fatto riflettere molto su me stessa e sul mio percorso di vita. A casa, in Puglia, ho una nonna di 102 anni che vive insieme con me e la mia famiglia e, ringraziando Dio, è autosufficiente in tutto. Vedendo lei pensavo di sapere cosa volesse dire prendermi cura di una persona ma mi sbagliavo. Nel mio lavoro di tirocinante infatti mi sono trovata ad interagire, per la prima volta, con persone dipendenti dagli altri in tutto e per tutto: ho sperimentato di non avere la più pallida idea cosa significasse davvero “curare” una persona che ha bisogno. L’ho compreso ancora meglio l’anno scorso quando ho fatto pratica nel reparto di geriatria: è stata dura, non solo dal punto di vista fisico (per spostarli, lavarli) ma soprattutto umano. Ci sono aspetti della professione di infermiera che, a lezione, non sono materia d’insegnamento: si apprendono facendone esperienza diretta. Per questo il tirocinio è anche una scuola di vita. Accade di dover interagire con pazienti che, dal punto di vista relazionale, appaiono “difficili”: …in realtà sono proprio quelli che si rivelano i migliori. Per esempio, mi è capitato di persone che, spesso e volentieri, al primo impatto, sono molto aggressive: è un atteggiamento che lì per lì m’infastidisce non poco, anche e soprattutto perché io sono là per aiutarle. In un secondo momento però mi accorgo che sono quasi sempre persone sole, nessuno va a fargli visita; coltivando l’amicizia “lavorativa” e conoscendole meglio, immancabilmente, “prende corpo” la consapevolezza che,“dietro”, c’è un bisogno sconfinato di calore umano…e mi rendo conto che sono io a dover essere tenera e comprensiva con loro piuttosto che loro con me. Quando percepiscono che possono fidarsi “si aprono”, raccontano del loro vissuto, confidano di sentirsi umiliati dal dover mostrare la loro nudità ad estranei per poter essere lavati, cambiati, medicati…
Sono esperienze queste che mi hanno fatto dono della consapevolezza che le persone più “difficili” sono le più ferite dalla vita e, proprio per questo, più profondamente ricche di umanità: il ricordo del loro volto rimane a lungo nel cuore.
Quest’anno invece, nel reparto di chirurgia, sto facendo un’esperienza diversa poiché i pazienti sono un po’ più autosufficienti. Tuttavia è una quotidianità altrettanto coinvolgente: ha a che fare con i malati terminali che accolgono ogni nuovo giorno come un immenso dono. Rimeditando la parabola di Lazzaro e del ricco epulone il mio pensiero va, in particolare, ad uno dei miei pazienti che ha vissuto le sue ultime settimane nella tristezza della solitudine – trascorreva intere giornate completamente solo – perché i parenti erano troppo presi dalla burocrazia delle varie pratiche di successione ereditaria…e dalla preoccupazione di fargli firmare tutti i relativi documenti prima che potesse morire: umanamente, è stata per me un’esperienza molto “forte” che mi ha lasciato tanta amarezza nel cuore.”
Di cosa si “nutre” la vostra esperienza di fede?
Giorgia e Ilaria sono concordi: “può sembrare che noi giovani siamo più attratti dalle cose materiali della vita ma non è solo e sempre così. Talvolta vorremmo solo sentirci un po’ più rispettati nel nostro bisogno e desiderio di coltivare la fede in una Presenza che, certamente, accanto a noi c’è: non occorre che qualcuno ci debba dire e convincere in Chi dobbiamo credere e come dobbiamo fare. Anche quando torniamo a casa dalle nostre famiglie, normalmente, la domenica frequentiamo la parrocchia e partecipiamo alla Messa. Ma i nostri genitori non ce l’hanno mai imposto come un obbligo o un precetto da assolvere.”
E Ilaria incalza: “il contesto sociale e familiare in cui si cresce fa la differenza anche per ciò che concerne la vita di Fede. La testimonianza di un gesto “dice” molto ed ha una funzione pedagogica più eloquente di tante parole. La mia nonna, per esempio, è molto credente. Ogni sera fa le sue preghiere “in compagnia” di tutti “i suoi Santini” preferiti – la sua preghiera serale dura una buona oretta – ma non ha mai imposto a me e ai miei fratelli di pregare con lei. Noi però, vedendola pregare con tanta semplicità e tenerezza, con tanta sollecitudine nel rendere grazie a Dio per ogni giorno che le dona di poter vivere in buona salute, ci siamo sempre sentiti “attratti” dal suo entusiasmo: spontaneamente, abbiamo iniziato sin da piccoli a pregare e ad andare a Messa insieme con lei, e continuiamo a farlo volentieri anche ora che siamo più grandicelli. Per me che sono a Parma non è più possibile condividere come prima questi momenti, ma la mia nonnina non manca di essermi vicina e, “a modo suo”, continua a farmi sentire il suo affetto magari mandandomi l’immaginetta di qualche “Santino” o piccole cose così.”
C’e’ una Parola in particolare che “sentite” come un dono per la vostra vita?
Ci spiegano di essere entrambe molto affascinate dal modo di parlare di Gesù attraverso le parabole, soprattutto quelle che si soffermano sul bisogno e la gioia del perdono.
Qualche proposito quaresimale?
Giorgia: “C’è sempre qualcosa da migliorare : forse in Quaresima ci si pensa un po’ di più. Personalmente, mi sforzo di “smussare” un po’ il mio difetto di giudicare, mi impegno a non restare “bloccata” sulle cose di poco conto ma di guardare e andare oltre.”
Ilaria: “In Quaresima in modo particolare, ma abitualmente tutto l’anno, a fine giornata cerco di fare “un bilancio” di ciò che ho fatto bene e di ciò che ho fatto male. E in ciò che ho fatto male provo a capire come potrei migliorarmi: soprattutto nel mio rapporto di lavoro c’è sempre qualcosa che vorrei fare meglio, qualche parola “fuori posto” per cui poi mi sento mortificata. Il mio “fioretto” è di sforzarmi ogni giorno di aiutare gli altri pensando a loro e non a me: se, per esempio, capita una giornata in cui sono un po’ affaticata cerco di fare in modo che la mia stanchezza non “appesantisca” il rapporto con i pazienti del reparto. Non sempre riesco a dare il meglio ma ci spero e ci provo!”
Lucia Alfano
(Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali)