Il “Martirio dei Santi Faustino e Giovita” di Giuseppe Peroni (1710-1776)

(di Roberto Tarasconi)

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Martirio dei Santi Faustino e Giovita (di Giuseppe Peroni), pala dell'altare maggiore della Chiesa di Sorbolo

Il dipinto è interessante non solo per la qualità artistica, la scelta cromatica, l’efficacia compositiva, i registri chiaroscurali, ma per l’argomento che l’artista ha scelto o convenuto di rappresentare.

Nella tela Faustino e Giovita sono raffigurati al centro della composizione con lo sguardo rivolto al cielo, legati con corde e catene al palo del supplizio su di una catasta di legna. Attorno sono i carnefici: due accovacciati, mentre cercano di accendere il fuoco, e uno in piedi, a sinistra, stringe con tenaglie roventi il bicipite sinistro di Giovita. In secondo piano si riconoscono: a sinistra l’eculeo, il cavalletto di tortura, con accanto un calderone posto su una fiamma; a destra tre personaggi panneggiati nei pressi di una statua bronzea di imperatore posta su di un alto piedistallo. Tali figure mostrano atteggiamenti non di compiacimento ma discorsivi, interrogativi, quasi di stupore per ciò cui stanno assistendo. In alto, a sinistra, appare tra le nubi un angelo in atto di porgere due corone d’alloro.

Lo schema compositivo basato su di un asse centrale è di tipo classicheggiante e rientra nei modelli assimilati dal Peroni durante la sua formazione a Bologna e poi a Roma, ed in particolare l’atteggiamento e l’espressione idealizzata dei due martiri mostra saldi legami col classicismo di Annibale Carracci e soprattutto di Guido Reni. Ma la catasta non accesa, la tenaglia che non comprime le carni, la presenza dell’eculeo, l’angelo che porge corone ma non anche palme confermano che l’argomento trattato dall’artista non è la rappresentazione dell’atto del martirio ma tutto ciò che lo precede.

Dalla “passio” medievale relativa al culto di Faustino e Giovita sappiamo infatti che furono martirizzati dopo una serie incredibile di tentativi andati a vuoto nelle diverse città nelle quali furono in prigionia: prima a Brescia, poi a Milano, a Roma, a Napoli e infine ancora a Brescia dove vennero decapitati.

Quindi l’argomento trattato non è quello cruento della decapitazione dei due martiri ma la serie di prove che la precedettero nelle quali la protezione divina miracolosamente premia la loro fede. È quindi l’incrollabile fede in Dio il vero argomento della tela di Giuseppe Peroni.

Non conoscevo questa opera ma sull’autore sapevo che pesava da tempo un giudizio critico riduttivo che lo ha sempre liquidato come esponente minore del ‘700 parmense, in quanto ancorato a modelli tradizionali, di fatto impermeabile alle istanze innovative della cultura dei lumi e soprattutto improntato ad una traduzione “devozionale” dei temi sacri.

Eppure Giuseppe Peroni fu tra i primi docenti chiamati ad insegnare all’Accademia di Belle Arti di Parma nel 1758 quando la scuola divenne operativa. Inoltre la sua formazione artistica risulta molto qualificata: dal 1731 al 1733 studia presso l’Accademia Clementina di Bologna e dal 1734 al 1744 frequenta l’Accademia di San Luca a Roma, dove riceve nel 1738 il 1° premio per la classe di pittura. Cioè Peroni si forma nel solco del classicismo bolognese dei Carracci e del Reni e poi va a perfezionarsi nella Roma di Clemente XII e di Benedetto XIV e cioè nel centro indiscusso del classicismo tardobarocco e dei primi fermenti protoneoclassici. Dal1750 al 1752 poi sarà ancora a Roma, dove ottiene la protezione del cardinale Alberoni e del principe Barberini, e cioè agganci importanti che lo favoriranno, al suo rientro a Parma, sia nei confronti della committenza ecclesiastica locale che presso la corte del nascente ducato borbonico. Quindi Peroni, se autore “minore”, è comunque pittore di accertata professionalità.

E la tela classicista di Sorbolo del 1748, che privilegia il rapporto tra fede e protezione divina, prepara la scelta “devozionale”, documentata nella “Predica di San Vincenzo de’ Paoli” per la chiesa di San Lazzaro di Piacenza, commissionatagli nel 1750-1751 dal cardinale Alberoni.

Ciò che spiega la progressiva “devozionalità” che emerge nella produzione successiva del Peroni, ciò che gli impedirà di liberare in modo davvero geniale il possesso eloquente degli strumenti pittorici è probabilmente da ricondurre alla sua condizione di ecclesiastico, di sacerdote. Nella lapide funeraria murata nella chiesa di San Bartolomeo dove è sepolto viene infatti ricordato dagli amici innanzitutto come sacerdote di specchiata moralità e poi come eccellente pittore. Giuseppe Peroni ha il titolo ecclesiastico di “abate”, nel senso generico di sacerdote senza titolarità di parrocchia. In lui quindi la vocazione artistica e quella sacerdotale sono profondamente intrecciate e questo spiega come da un lato abbia scelto di occuparsi solo di pittura sacra, dall’altro abbia intriso la sua ricerca di un intento pastorale e didascalico di stretta osservanza, ligio cioè a quanto promosso ufficialmente dalla gerarchia cattolica romana nella prima metà del ‘700, quando nell’arte sacra si assiste al passaggio da una santità eroica e idealizzata ad un modello religioso dove sentimenti di dedizione totale, atteggiamenti di pietà e fervore religioso accomunano i diversi personaggi. E questo, a volte, in modo ripetitivo e stucchevole. Il Peroni dalla metà del ‘700 si fa cioè interprete, nell’ambito parmense, della necessità della Chiesa di mantenere saldo il controllo del fenomeno religioso opponendo al diffondersi del razionalismo illuminista l’efficacia della pratica devozionale. E questa necessità proseguirà lungo l’’800 con la diffusione a livello di massa dei santini, le immaginette devozionali da custodire nel libro da messa o nel portafoglio, con analoga funzione consolatoria ed esorcizzante.